C’era una volta un re che aveva centinaia di pecore e centinaia di capre e di mucche, e aveva anche molte centinaia di cavalli, e argento e oro a mucchi e a cataste. Pure era tanto triste che non avrebbe mai voluto veder nessuno, e tanto meno parlare. Era così da quando gli era sparita la più piccola delle figliole. Del resto se la sarebbe passata male anche senza averla perduta, perché lì c’era un troll che faceva sempre danni e rovine, così che la gente finiva per non andare più alla reggia: all’improvviso, il troll faceva uscire tutti i cavalli che calpestavano campi e prati e mangiavano il grano, poi tirava il collo alle anatre o alle oche del re, a volte uccideva le mucche nelle stalle, poi spingeva le pecore e le capre per l’altopiano e ogni volta che volevano prendere dei pesci nello stagno lui li buttava tutti sulla terra ferma.
C’era anche una vecchia coppia che aveva tre figli: uno si chiamava Per, l’altro si chiamava Pål e il terzo, Espen, lo chiamavano Ceneraccio perché se ne stava tutto il santo giorno sdraiato nella cenere a scavarci dentro con le mani.
Erano bravi ragazzi, ma Per, che era il maggiore, era convinto di poter diventare il più bravo di tutti, e così chiese al padre il permesso di andarsene per il mondo a tentare la fortuna.
- Sì, va' pure, meglio tardi che mai, ragazzo mio, - disse il vecchio. Ebbe così l'acquavite per la fiasca e il mangiare per la tasca, mise le gambe in spalle e scese giù per la valle. Camminava da un po' di tempo quando incontrò una vecchia lunga distesa sulla strada. - Oh, caro ragazzo mio, dammi qualcosa da mangiare per oggi, - pregò la vecchia. Ma Per guardò appena dalla sua parte, alzò le spalle e se ne andò per la sua strada.
- Già, già, - disse la vecchia, - va' pure, vedrai come andrà a finire! - aggiunse poi. Cammina, cammina e cammina ancora di più, Per arrivò alla reggia. Il re stava davanti alla casa dando da mangiare alle galline.
- Buonasera, Dio vi benedica, - disse Per. - Pii pii pii pii pii, - gridava il re gettando il grano a destra e a sinistra, senza badare affatto a Per.
«Spargi pure il grano e parla con le galline sino a che diventerai un orso, - disse Per tra sé. – Non ti disturberò certo con le mie chiacchiere», continuò e poi se ne andò in cucina e si mise a sedere sulla panca, come se fosse un uomo importante. – Che ragazzaccio! – esclamò la cuoca. Infatti non gli era ancora venuta la barba. Gli parve che la ragazza volesse farsi beffe di lui e perciò cominciò a bastonarla, ma ecco che arrivò il re che gli fece tagliare tre strisce rosse di pelle dalla schiena, poi ci sparse sopra del sale e lo rimandò a casa per la via da dove era venuto.
Quando Per fu tornato a casa, Pål pensò di andar via lui. Ebbe anch’egli acquavite per la fiasca e mangiare per la tasca, mise le gambe in spalle e scese giù per la valle. Aveva fatto un po’ di strada quando incontrò la vecchia che gli chiese da mangiare, ma lui passò avanti senza neppure rispondere, e alla reggia non gli andò un pelo meglio che a Per. Il re gridava pii pii pii, la cuoca lo chiamò moccioso maleducato, e quando lui volle bastonarla arrivò il re con il coltello da macellaio, gli tolse tre strisce rosse di pelle dalla schiena, ci sparse sopra delle braci ardenti e lo rispedì via con la schiena scorticata.
Allora Ceneraccio saltò fuori di sotto il camino e cominciò a muoversi; il primo giorno si tolse di dosso la cenere, il secondo si lavò e si pettinò e il terzo si vestì e si agghindò come per andare in chiesa.
- Ma guarda un po'! - disse Per. - Abbiamo un nuovo sole qui dentro! Vuoi andare alla reggia a guadagnarti la principessa e la metà del regno, eh? Ma rimani fra la cenere, sta' coricato nella cenere tu! - continuò. Da quell'orecchio Ceneraccio non ci sentiva, così andò dritto dritto da suo padre e gli chiese il permesso di andarsene un po' per il mondo.
- E cosa vuoi fare per il mondo? - gli chiese il vecchio. - A Per e Pål non è andata bene davvero e come te la caverai tu? - aggiunse.
Ma Ceneraccio non si arrese fino a che non ebbe il permesso di andare.
I fratelli non volevano che avesse anche lui le provviste per il viaggio, ma la madre gli diede una crosta di cacio e un osso, e così Ceneraccio si allontanò dalla fattoria dondolando. Lui non aveva fretta: «Arriverai sempre in tempo, - pensò, - per ora hai tutto il giorno davanti a te, e poi può anche darsi che sorga la luna, se sei fortunato». Così avanzò mettendo un piede davanti all'altro, e in cima alle salite si fermava per tirar fiato e per guardarsi intorno con calma.
Cammina cammina, arrivò dalla vecchia coricata nella cunetta della strada. - Povera vecchierella mia, hai certamente fame! - esclamò Ceneraccio. Aveva fame sì, dichiarò la vecchia.
- Allora divideremo quello che ho, - disse Ceneraccio dandole la crosta di cacio.
- Hai anche freddo? - le chiese vedendo che batteva i denti. - Puoi prenderti la mia vecchia giacca, è corta di braccia e stretta di schiena, ma era veramente buona quando era nuova.
- Aspetta ora, - disse la vecchia frugando nel suo tascone, - eccoti una vecchia chiave, - continuò. - Non ho nulla di meglio e nulla di peggio da darti, ma guardando attraverso l'anello potrai vedere tutto quello che vuoi.
Quando Ceneraccio arrivò alla reggia la cuoca stava portando in casa l’acqua con grande fatica: - Per te è troppo pesante, - dichiarò il ragazzo, - forse son più adatto io per questo lavoro, - disse.
Chi fu contenta fu la cuoca, che da allora in poi lasciò che Ceneraccio grattasse quel che restava nella pentola; non passò però molto tempo che questo favore gli procurò molti nemici che lo calunniarono presso il re, dicendo che si era dichiarato capace di fare questo e quell’altro.
Un giorno il re venne a chiedere a Ceneraccio se era vero che era capace di trattenere i pesci nello stagno in modo che il troll non potesse far loro del male: - Dicono che hai dichiarato di saperlo fare! – continuò.
- Non è vero, - rispose Ceneraccio, - ma se lo avessi dichiarato ne sarei anche capace.
Comunque stessero le cose, se voleva salvarsi la schiena avrebbe dovuto provarcisi, dichiarò il re.
Allora avrebbe tentato, rispose Ceneraccio, perché non aveva voglia di andarsene con la schiena rossa sotto la giubba.
La sera Ceneraccio guardò attraverso l’anello della chiave e si accorse così che il troll aveva paura del timo. Si mise perciò a racimolare tutto il timo che poteva trovare, poi lo sparse sull’acqua e ne gettò un po’ per terra; il resto lo sparpagliò sull’orlo dello stagno.
Il troll dovette dunque lasciare in pace i pesci, ma le pecore la scontarono per tutti, perché il troll le spinse per l’intera notte attraverso le alture.
Ci fu poi qualcun altro dei servitori che andò a dire che Ceneraccio aveva un rimedio anche per le pecore, solo che volesse: aveva dichiarato di esserne capace, era certo.
Il re allora andò da lui e gli ripeté lo stesso discorso della prima volta, minacciandolo di togliergli dalla schiena tre strisce rosse di pelle se non avesse ubbidito.
Non c’era altro da fare; Ceneraccio dichiarò che sarebbe stato bello andare in giro vestito tutto di rosso come il re, ma che preferiva farne senza, dato che la sua schiena avrebbe dovuto pagarne le spese, aggiunse.
Ricominciò allora con il timo, ma non arrivava mai alla fine del suo lavoro, perché mano a mano che lo legava sulle pecore quelle se lo mangiavano via l’uno con l’altra, e non terminava mai perché erano più rapide le pecore a mangiare che lui a legare il timo. Alla fine però preparò un impasto di timo e catrame e così quelle smisero di mangiarlo. Anche mucche e cavalli furono unti con quell’impasto e in questo modo non ebbero più seccature da parte del troll.
Ma un giorno il re durante una caccia si perse nel bosco: cavalcò per molti giorni senza trovar nulla da mangiare e da bere, e nel fitto della foresta i suoi vestiti si ridussero tanto male che alla fine non aveva più addosso quasi neppure uno straccio.
Allora venne il troll e disse al re che se gli prometteva la prima persona che avesse incontrato appena tornato nelle sue terre, avrebbe potuto tornarsene alla reggia. Il troll poteva contarci, disse il re, pensando che si sarebbe certo trattato del suo cagnolino che gli andava sempre incontro abbaiando e scodinzolando. Ma quando fu così vicino alla reggia da esser veduto gli andò incontro la figlia maggiore, con tutta la servitù dietro, per riceverlo con tutti gli onori.
Vedendola venire per prima, il re si sentì così male che cadde subito a terra, e da allora in poi rimase quasi sempre fuori di sé.
La sera il troll doveva venire a prendere la principessa, che stava seduta tutta in fronzoli in un prato vicino al laghetto, piangendo e lamentandosi. Avrebbe dovuto accompagnarla un giovane chiamato Volpe Rossa, ma quello ebbe tanta paura che si arrampicò su di un abete alto alto e rimase lassù. Subito arrivò Ceneraccio, che si sedette per terra al fianco della principessa. Lei fu molto contenta, naturalmente, nel vedere che c’era un cristiano che non aveva paura di starle vicino. – Mettimi la testa in grembo, così ti spidocchierò, - lo invitò la fanciulla. Ceneraccio non se lo fece dire due volte, e mentre lei lo spidocchiava si addormentò; lei allora si tolse un anello d’oro dal dito e glielo legò stretto stretto ai capelli.
Subito arrivò il troll sbuffando: era così pesante nel camminare che per due buone miglia davanti a lui il bosco rintronava e rimbombava. Quando vide Volpe Rossa arrampicato in cima all’abete come un piccolo gallo cedrone, gli sputò addosso: - Toh! – fece, e Volpe Rossa precipitò a terra insieme all’abete e lì rimase, dimenando gambe e braccia come un pesce all’asciutto.
- Uh Uh! se te ne stai qui seduta a spidocchiare dei cristiani, io ti mangerò! - disse alla principessa.
- Ohi! - fece Ceneraccio svegliandosi, e subito guardò il troll attraverso l'anello della chiave.
- Uh Uh! Che cosa hai da guardarmi? - chiese il troll a Ceneraccio. - Uh Uh! - Così detto gli gettò dietro la stanga di ferro che stava nel monte dieci metri sotto terra, ma Ceneraccio era tanto svelto e veloce che riuscì a salvarsi proprio mentre il troll gettava la stanga.
- Ohibò! Roba da donnette! - disse Ceneraccio. - Dammi un po' quel tuo stuzzicadenti e vedrai come si tira! - Il troll prese su la stanga con un colpo; era grande quanto tre stanghe da cancello messe insieme. Intanto Ceneraccio guardava in alto, tanto a nord che a sud.
- Uh Uh! E che cosa stai guardando adesso? - chiese il troll. - Sto guardando verso quale stella dovrò tirare la stanga, - rispose Ceneraccio. - Vedi quella piccola piccola là a nord? Colpirò quella, - disse. - No, lasciala stare dov'è, - protestò il troll. - Non devi buttar via la mia stanga di ferro.
- E va bene, allora riprenditela, - disse Ceneraccio, - ma forse saresti più contento che ti buttassi una buona volta su nella luna? - chiese. No, il troll non voleva neanche quello.
- Ma allora mosca cieca! Non hai voglia di giocare a mosca cieca? - Poteva esser abbastanza divertente, rispose il troll. - Ma comincia tu, - disse a Ceneraccio. - Oh, volentieri! - rispose il ragazzo, - ma la cosa migliore è che facciamo la conta, così non ci sarà ragione di litigare. - E va bene! - Naturalmente Ceneraccio fece in modo di bendare gli occhi al troll, che dovette così cominciar lui. Ma avresti dovuto vederla quella partita di mosca cieca! Correvano in giro per il bosco, il troll urtava e incespicava contro gli alberi facendo cascare i tronchi marci con gran rumore.
- Ohi ohi! Al diavolo questa mosca cieca! - gridò il troll fuori di sé dalla rabbia. - Aspetta un po', - disse Ceneracccio, - resterò fermo e ti chiamerò fino a che mi avrai acchiappato -. Intanto prese un pettine per cardare la canapa e saltò dall'altra parte del laghetto che era senza fondo. - Vieni adesso, sono qua! - gridò Ceneraccio. - Ci son certo alberi e tronchi rovesciati? - chiese il troll.
- Qui non ci sono alberi, lo senti bene, - rispose Ceneraccio, e giurò che non c'erano né tronchi né alberi. - Vieni ora! - Così ricominciarono. «Paff!» ecco il troll dentro il laghetto, e appena quello riuscì a tirar la testa su dall’acqua, Ceneraccio gli cavò gli occhi con il pettine della canapa.
Poi il troll lo pregò con tanta insistenza di aver salva la vita che il ragazzo ebbe compassione di lui; prima però avrebbe dovuto dichiarare libera la principessa, restituire l’altra che aveva preso prima, e promettere di lasciare in pace persone e animali. Così il troll poté scamparla e se ne tornò barcollando a casa, sulla sua montagna. Allora Volpe Rossa riprese coraggio, scese dall’abete, portò su al castello la principessa e la costrinse con minacce a dichiarare che era stato lui a liberarla. Poi tornò giù pian piano a prendere l’altra, dopo che Ceneraccio la ebbe fatta entrare nel giardino. Ci fu una tale allegrezza alla reggia che se ne parlò e se ne sentì parlare per tutto il regno e Volpe Rossa avrebbe dovuto sposare la principessa più giovane.
Sì, tutto andava bene, ma proprio bene non andava, perché il troll si era subito ficcato sotto terra, bloccando tutte le vene d’acqua. «Se non posso fare nessun altro malestro, - pensava, - voglio almeno che non abbiano acqua per cuocervi la farinata di nozze». Non ci fu niente altro da fare che mandare di nuovo a chiamare Ceneraccio. Quello si procurò una stanga di ferro lunga una decina di metri con sei fabbri per arroventarla. Poi guardò attraverso l’anello della chiave, così poté vedere il troll sotto terra proprio come se fosse sopra e gli infilzò la stanga direttamente in mezzo alla schiena, così che si sentì puzza di corno bruciato per dieci miglia all’intorno. – Ahi! Ahi! gridò il troll, - tirami su! – Ed eccolo venir su attraverso il buco, bruciato fino al collo. Ma Ceneraccio non perse tempo, afferrò il troll, lo mise su di una stanga coperta di timo e lo tenne lì steso fino a che quello disse dove aveva ripreso l’occhio che Ceneraccio
gli aveva cavato con il pettine della canapa. – Ho rubato un ravanello, - dichiarò il troll, - l’ho unto per bene e poi l’ho tagliato come volevo, e l’ho ficcato dentro con dei chiodi: non augurerei a nessun cristiano un occhio migliore.
Arrivarono allora il re e le due principesse per vedere il troll: Volpe Rossa camminava così tronfio e pettoruto che il sedere gli andava più alto del collo. Ma il re si accorse di qualcosa che brillava tra i capelli di Ceneraccio: - Che cosa hai lì? – gli chiese. – Oh, è l’anello che mi ha dato tua figlia quando l’ho liberata dal troll, - rispose quello, e così saltò fuori come erano andate le cose. Volpe Rossa pianse e scongiurò, ma per quanto piangesse e per quanto facesse non servì a nulla, dovette finire nella fossa dei serpenti, e lì crepò subito.
Allora ammazzarono il troll, e poi cominciarono a far chiasso, a bere e a ballare per festeggiare le nozze di Ceneraccio, perché adesso era lui la persona più importante. Gli toccò infatti la principessa più giovane, e la metà del regno.
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