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"La fanciulla sulla montagna di vetro" - 13 giugno 2001

C’era una volta un uomo che aveva un prato lontano lontano sulla costa del monte, e in mezzo a quel prato c’era un fienile dove lui teneva il foraggio. Ma negli ultimi anni il fienile non era stato certo molto pieno, perché la notte di san Giovanni, quando l’erba era più bella e più rigogliosa, il prato veniva devastato, come se un intero armento ci passasse sopra pascolando tutta la notte. Successe così una volta, successe due, alla fine l’uomo si seccò e disse ai suoi figli – ne aveva tre, il terzo era Ceneraccio – che uno di loro la notte di san Giovanni avrebbe dovuto coricarsi nel fienile sulla costa: non c’era ragione che l’erba dovesse esser divorata ancora una volta filo per filo come gli ultimi due anni. Chi voleva andarci avrebbe dovuto star bene attento, aggiunse l’uomo.
Fu il più grande dei tre che volle andare a badare all’erba: né persone né bestie e neppure il diavolo in persona avrebbero potuto prenderla. Verso sera andò nel fienile e si mise a dormire, ma durante la notte si sentì un tal rumore e vi fu un tal terremoto che pareti e tetto si misero a tremare; il ragazzo allora si alzò, mise le gambe in spalla più presto che poté, senza neppure avere il coraggio di guardarsi indietro e l’erba fu divorata anche quella notte come gli altri anni.
La sera di san Giovanni dell’anno seguente l’uomo ripeté che era un vero guaio perdere tutta l’erba di quel prato un anno dopo l’altro: uno dei figli sarebbe dovuto andare a far la guardia, e avrebbe anche dovuto farla per bene. Volle allora tentare il secondo. Andò dunque nel fienile e si mise a dormire come aveva fatto il fratello, ma nel mezzo della notte si sentì un tal rumore e vi fu un tal terremoto, ancora peggio dell’anno precedente, che il ragazzo prese paura e corse via con tale rapidità come se fosse stato pagato.
L’anno dopo toccò a Ceneraccio, ma quando fece per mettersi in cammino gli altri due cominciarono a ridere e a prenderlo in giro: - Proprio tu sarai capace di stare attento all’erba, tu che non sai fare altro che star seduto nella cenere ad arrostirti! – gli dissero. Ma Ceneraccio non badò affatto a quei discorsi e venuta la sera si avviò lentamente verso il prato lontano. Entrato nel fienile si coricò, ma dopo un po’ si sentirono un rumore e un chiasso spaventosi. «Se non diventa peggio di così si può ben resistere», pensò Ceneraccio.
Dopo un po’ si sentì ancora un gran fracasso e vi fu un terremoto tale che il fieno svolazzò intorno al ragazzo. «Se non diventa peggio di così si può ben resistere», pensò Ceneraccio.
Ma sul più bello ecco per la terza volta un gran rumore e un terremoto così forte che il ragazzo pensò che le pareti e il tetto fossero crollati. Una volta passato tutto però ci fu attorno a lui un grande silenzio. «Penso che torneranno», disse Ceneraccio tra sé e sé. Invece non tornarono, tutto era tranquillo, e tranquillo rimase. Dopo esser rimasto un po’ lì coricato Ceneraccio sentì un rumore, come di un cavallo che stesse masticando qualcosa vicino vicino alla porta. Il ragazzo si avvicinò allora pian piano alla porta socchiusa per vedere cosa c’era e scorse un cavallo che stava mangiando, un cavallo così grosso, così grasso e così bello lui non l’aveva mai visto. Era fornito di sella, di morso, non mancava neppure una bella armatura da cavaliere e tutto era di rame, così lucido che brillava. «Ho capito! Sei tu che mangi ogni anno la nostra erba! – pensò il ragazzo. – Ci penserò io a impedirtelo». Si affrettò a prendere il suo acciarino e lo buttò addosso al cavallo, che così non poté più muoversi da dove era: diventò tanto mansueto che il ragazzo poté farne quel che voleva. Saltatogli in groppa, cavalcò allora verso un luogo che nessuno conosceva, e lo lasciò lì.
Quando tornò a casa i fratelli risero e gli chiesero come era andata. – Anche se sei rimasto via tanto tempo, non sei certo stato a lungo coricato nel fienile! – gli dissero.
- Son rimasto nel fienile finché è sorto il sole io, ma non ho sentito né visto nulla, - dichiarò il ragazzo. – Per che cosa poi vi siete spaventati, io non lo so!
- Già, ma vogliamo vedere come sei stato attento al prato, - risposero i fratelli. Quando però andarono a vedere, l’erba era fitta e alta come la sera prima.
La notte di san Giovanni dell’anno seguente accadde lo stesso: nessuno dei due fratelli osò andare su quel prato a far la guardia, ma Ceneraccio sì, e tutto si svolse precisamente come la precedente notte di san Giovanni: prima vi fu un gran rumore e un terremoto, poi ancora di nuovo, e poi ancora una terza volta, ma questa volta i tre terremoti furono molto, molto più forti. All’improvviso vi fu poi silenzio assoluto, e il ragazzo sentì qualcuno che masticava davanti alla porta. Si avvicinò allora alla porta socchiusa più piano che poté: ecco lì un cavallo, che masticava e ruminava vicino vicino alla parete, un cavallo molto più grosso e più grasso di quello dell’altra volta; sulla schiena aveva la sella, non mancavano il morso e una bella armatura, tutto era d’argento lucente, bello da far meraviglia. «Ho capito, stanotte sei tu a mangiare il nostro fieno, - disse il ragazzo tra sé, - ci penserò io a impedirtelo!» Afferrò poi il suo acciarino e lo gettò sulla criniera del cavallo che rimase lì, tranquillo come un agnello. Il ragazzo cavalcò ancora sino al luogo dove aveva portato l’altro cavallo e poi ritornò a casa.
- È bello oggi lassù nel prato? – gli chiesero i fratelli.
- Sicuro! – rispose Ceneraccio.
Andarono a vedere un’altra volta: l’erba era alta e fitta come prima, ma essi non diventarono per questo più gentili con Ceneraccio.
Tornata per la terza volta la notte di San Giovanni, i due fratelli non osarono davvero coricarsi nel fienile per badare all’erba: quando c’erano stati avevano avuto troppa paura per riuscire a dimenticarsene; ma Ceneraccio ebbe il coraggio d’andarci. E accadde tale e quale quello che era accaduto le altre due notti: vi furono tre terremoti, sempre più forti, e all’ultimo il ragazzo ballò da una parete all’altra, ma poi all’improvviso regnò un assoluto silenzio. Dopo esser rimasto coricato un po’ di tempo, Ceneraccio sentì qualcuno masticare davanti al fienile; s’avvicinò di nuovo pian piano alla fessura della porta, ed ecco lì fuori un cavallo, molto più grosso e più grasso degli altri due che aveva domato, con sella, morso e una completa armatura di oro puro rilucente. «Ho capito! Questa volta sei tu a divorare la nostra erba! – disse fra sé il ragazzo, - ci penserò io a impedirtelo». Poi afferrò il suo acciarino, glielo gettò addosso e il cavallo rimase lì come conficcato in terra: il ragazzo poté fare di lui quel che voleva. Cavalcò così verso il luogo dove aveva portato gli altri due cavalli, e poi se ne ritornò a casa. Allora i due fratelli lo presero in giro come le altre volte: era certo stato molto attento al prato quella notte – dissero – andava ancora in giro come uno che dormisse. Ma Ceneraccio non ci badò, e li pregò solo di andare a vedere: quelli andarono, e anche questa volta l’erba era alta e bella fitta.
Il re del paese dove abitava il padre di Ceneraccio aveva una figlia, e l’avrebbe data in sposa solo a chi fosse stato capace di cavalcare fino in cima alla montagna di vetro, perché c’era una montagna alta alta, lucida come il ghiaccio, proprio vicino alla reggia. La figlia del re si sarebbe seduta là in cima con tre mele d’oro in grembo, e quello che fosse riuscito ad arrivare col cavallo fino in cima e a prendere le mele d’oro avrebbe avuto la fanciulla e la metà del regno: il re fece leggere il bando davanti alle chiese di tutto il paese e anche di molti altri regni.
La principessa era così bella che tutti quelli che la vedevano perdevano la testa, che lo volessero o no, e così puoi bene immaginare che principi e cavalieri avevano tutti voglia di prendersi la ragazza e la metà del regno. Giunsero perciò a cavallo da tutte le parti del mondo, così splendenti che brillavano e su tali destrieri che sembrava che andassero a una festa da ballo: non ce ne era nemmeno uno che non fosse sicuro che sarebbe stato lui a prendersi la principessa.
Quando venne il giorno fissato dal re c’era un vero brulichio di principi e di cavalieri davanti alla montagna di vetro e tutti quelli in grado di camminare e di trascinarsi si recarono lì per vedere chi si sarebbe presa la principessa. Pensarono di andare anche i due fratelli di Ceneraccio, ma non vollero assolutamente che lui li accompagnasse: brutto e nero come si era ridotto scavando nella cenere sembrava proprio che fosse stato scambiato in culla con un troll, e la gente li avrebbe certamente presi in giro tutti e tre – dichiararono.
- Posso andarci benissimo anche da solo, - dichiarò Ceneraccio.
Quando i due fratelli giunsero alla montagna di vetro, i principi e i cavalieri stavano tentando di salire a cavallo fino in cima tanto che i cavalli erano coperti di schiuma, ma non riuscivano a nulla, perché bastava che i cavalli posassero uno zoccolo sul monte per scivolare, e non ce ne fu nemmeno uno che riuscì a salire di un solo metro. Né c’era da meravigliarsene, perché il monte era liscio come un lastrone di ghiaccio e ripido come una parete. Tutti avrebbero però voluto la principessa e la metà del regno e così continuarono a cavalcare e a scivolare, ma senza riuscire a nulla. Alla fine i cavalli erano così stanchi che non ce la facevano più, e così sudati che l’acqua scendeva a rivoli! Allora i cavalieri dovettero arrendersi. Il re stava già pensando di far annunciare che la gara sarebbe ricominciata il giorno dopo, sperando in cuor suo che le cose sarebbero andate meglio, quando arrivò un cavaliere su un cavallo così bello che nessuno ne aveva mai visto l’uguale, con un’armatura di rame e un morso di rame, così lucido che brillava tutto. Gli altri gli gridarono che avrebbe potuto fare a meno di tentare la prova della montagna, perché tanto non serviva a nulla. Ma da quell’orecchio lui non ci sentiva, e cominciò a cavalcare su per la montagna come se niente fosse: montò per un bel pezzo, quasi una terza parte, ma poi fece voltare il cavallo e scese di nuovo. Ma mentre saliva la principessa, convinta di non aver mai visto un cavaliere bello come quello, pensava: «Volesse il Cielo che arrivasse fin su!» Quando poi vide che voltava il cavallo gli gettò una delle mele d’oro, e quella gli andò a finire dentro una scarpa. Appena arrivato ai piedi del monte però il cavaliere se ne andò via così rapidamente che nessuno vide dove. La sera tutti i principi e i cavalieri dovevano presentarsi al re, così quello che era arrivato più in alto di tutti avrebbe potuto mostrare la mela d’oro che gli aveva gettato la principessa. Ma non ce l’aveva nessuno: vennero tutti, uno dopo l’altro, ma nessuno fu in grado di mostrare la mela.
La sera tornarono a casa anche i fratelli di Ceneraccio e raccontarono per filo e per segno della gara sulla montagna di vetro: prima non c’era stato nessuno capace di salire neppure un passo: ma poi era arrivato uno con l’armatura di rame e il morso di rame, così splendente che riluceva da lontano – raccontarono – e cavalcava che era una meraviglia: era salito sino ad un terzo della montagna, e sarebbe potuto arrivare sino in cima se solo avesse voluto, ma poi aveva fatto voltare il cavallo perché gli sembrava che per quella volta bastasse.
- Oh, sarebbe piaciuto anche a me vederlo! – disse Ceneraccio, che se ne stava seduto nella cenere scavando, al solito.
- Già, proprio tu! – esclamarono i fratelli. – Ti presenti proprio in modo tale da poter stare fra persone di riguardo, bestione che non sei altro, seduto lì come stai!
Il giorno dopo i fratelli vollero rimettersi in cammino, e Ceneraccio li pregò anche questa volta di farlo andare con loro per vedere la gara; ma quelli non vollero: era troppo brutto e troppo balordo, dichiararono.
- Già, me ne posso andare benissimo anche da solo! – disse Ceneraccio.
Quando i fratelli arrivarono alla montagna di vetro, i principi e i cavalieri avevano ricominciato a cavalcare; naturalmente avevano ferrato per bene i loro cavalli. Ma non servì a nulla; scivolavano come il giorno prima, e nessuno riuscì a salire nemmeno di un metro. Quando ebbero affaticato i loro cavalli così che quelli non ce la facevano più dovettero smetterla tutti quanti; allora il re pensò di far annunciare che la gara sarebbe ricominciata, per l’ultima volta, il giorno seguente, sperando che le cose allora sarebbero andate meglio. Ma poi cambiò idea: era meglio aspettare ancora un poco – pensò – per vedere se non tornava anche quel giorno quello dall’armatura di rame. Di lui non videro traccia, ma ecco che arrivò uno a cavallo, un cavallo molto più bello di quello del cavaliere dall’armatura di rame: aveva l’armatura d’argento, la sella d’argento e il morso d’argento, tutto così rilucente che splendeva da molto lontano.
Gli altri lo chiamarono anche questa volta dicendogli che avrebbe ben potuto rinunciare alla prova della montagna di vetro, perché tanto non sarebbe servito a niente. Ma il cavaliere non li stette a sentire, cavalcò dritto in direzione della montagna e cominciò a salire verso la cima: andò ancora più su di quello dall’armatura di rame, ma quando fu a due terzi fece voltare il cavallo, e ritornò indietro. Alla principessa lui piacque ancor più del primo, tanto che non faceva che desiderare che arrivasse fino in cima, ma quando gli vide voltare il cavallo gli gettò la seconda mela, e quella gli ruzzolò dentro la scarpa. Appena sceso dalla montagna si allontanò subito sul suo cavallo, così rapidamente che nessuno poté vedere dove era andato.
La sera dovevano presentarsi tutti davanti al re e alla principessa, così quello che aveva la mela avrebbe potuto mostrarla, ma vennero uno dopo l’altro, e nessuno aveva la mela. Come il giorno prima, i due fratelli di Ceneraccio tornati a casa gli raccontarono quel che era successo: tutti avevano provato a cavalcare, e nessuno era riuscito a salire in cima. – Ma finalmente è arrivato uno con un’armatura d’argento e aveva anche la sella d’argento e il morso d’argento, - dissero. – Quello sì che sapeva cavalcare! È arrivato a un terzo dalla cima, ma poi è tornato indietro. Era veramente un tipo in gamba! E la principessa gli ha gettato l’altra mela, - aggiunsero i fratelli.
- Oh, sarebbe piaciuto anche a me vederlo! – disse Ceneraccio.
- Già, era proprio splendente come la cenere dove stai seduto tu a scavare, bestione che non sei altro! – gli gridarono i fratelli.
Il terzo giorno tutto andò allo stesso modo che negli altri due: Ceneraccio avrebbe voluto unirsi agli altri per vedere la gara, ma i due fratelli non vollero prenderlo con sé; quando arrivarono alla montagna di vetro non ci fu nessuno che salisse più di un metro. Tutti aspettavano allora il cavaliere dall’armatura d’argento, ma non lo si vide e non lo si sentì. Ma aspetta aspetta, arrivò uno su di un cavallo; non ne avevano mai visti di più belli; aveva l’armatura d’oro, la sella d’oro e il morso d’oro, così lucido e così brillante che splendeva da molto molto lontano. Gli altri cavalieri e principi non riuscirono neanche a gridargli che non valeva la pena di tentare la prova, tanto rimasero a bocca aperta davanti a tutta quella magnificenza. Andò dritto verso la montagna di vetro, vi si lanciò sopra con la rapidità di una piuma spinta dal vento, così che la principessa non ebbe nemmeno il tempo di desiderare che quello arrivasse che lui era già su in cima. Appena su, prese la terza mela dal grembo della principessa, poi fece voltare il cavallo e tornò giù, ma scomparve anche lui prima ancora che se ne accorgessero.
Quando la sera i due fratelli tornarono a casa raccontarono per filo e per segno come era andata la gara quel giorno, e alla fine raccontarono anche del cavaliere con l’armatura d’oro. – Quello sì che era un tipo in gamba! Un cavaliere magnifico come lui non si trova in tutto il mondo, - dichiararono i fratelli.
- Oh, sarebbe piaciuto anche a me vederlo! – disse Ceneraccio.
- Già, il mucchio di carbone dove stai lungo disteso a frugare brilla un po’ meno, brutto bestione sporco che non sei altro! – gli gridarono.
Il giorno dopo tutti i cavalieri e i principi dovevano presentarsi al re e alla principessa – la sera prima si era fatto troppo tardi, penso – così quello che aveva la mela d’oro avrebbe potuto mostrarla. Vennero tutti, uno dopo l’altro, prima i principi e poi i cavalieri, ma nessuno aveva la mela d’oro.
- Già, ma uno deve averla, - disse il re, - lo abbiamo visto tutti quanti arrivare fino in cima con il cavallo e prenderla -. Poi diede ordine che tutti quelli che erano nel paese si presentassero al castello per consegnare la mela; vennero così l’uno dopo l’altro, ma nessuno aveva la mela d’oro; aspetta aspetta, vennero anche i due fratelli di Ceneraccio. Erano gli ultimi, e allora il re chiese se non c’era proprio nessun altro nel regno.
- Se è per questo, noi abbiamo un fratello, - risposero i due, - ma la mela d’oro non l’ha certamente presa lui, non è mai uscito dal suo mucchio di cenere in questi giorni.
- Fa lo stesso, - dichiarò il re, - se tutti gli altri sono venuti su al castello, può venire anche lui! – e così dové venire al castello anche Ceneraccio.
- Hai tu la mela d'oro? - gli chiese il re.
- Sì, ecco la prima, ecco la seconda ed ecco la terza! - rispose Ceneraccio tirando fuori di tasca le tre mele d'oro; nello stesso istante buttò via i suoi stracci fuligginosi, ed eccolo lì nella sua armatura d'oro, così rilucente che splendeva tutto.
- Avrai mia figlia e la metà del regno: te li sei meritati tutti e due, - dichiarò il re.
Furono così celebrate le nozze, e Ceneraccio ebbe in sposa la figlia del re. Durante i festeggiamenti si dettero naturalmente alla pazza gioia, perché tutti sono capaci di darsi alla pazza gioia, anche se non tutti sono capaci di salire sulla montagna di vetro; se non si sono stancati fanno follie ancor oggi.


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